Anche la «nazione» può essere un idolo (“Nostro Tempo” 11 marzo 2018)

All’indomani delle elezioni politiche, come quasi sempre accade, ci si concentra sui preparativi per la formazione del nuovo governo, mentre – quale che sia stato l’esito delle urne – la campagna elettorale esce di scena verso l’oblio. Data la pessima qualità del dibattito politico umiliato da promesse irrealizzabili o dalla manipolazione di bisogni inascoltati, un tal esito è certo auspicabile. Occorre, tuttavia, non dimenticare quanto è emerso in quel frangente: ossia il drammatico stato di cose relativo ai fenomeni, non irrelati, dell’immigrazione e del lavoro. Al di là delle prese di posizione delle parti, occorre riflettere attentamente sul rapporto tra questa delicata congiuntura (che insieme ad innegabili opportunità, dà adito a fenomeni di sfruttamento e criminalità) e l’emergente ondata nazionalistica alla quale abbiamo assistito. La globalizzazione, suscitata da una sempre più urgente ricerca di nuovi mercati, ha provocato per così dire un “rimescolamento” dei popoli, seguito all’indebolimento dei confini statali consentito al fine di favorire la circolazione degli affari. L’ordine liberal-democratico strutturato sulla rigida delimitazione dello spazio politico, sviluppatosi nel corso dell’epoca moderna sulla base dello stato-nazione, è stato messo in crisi dalla deregolamentazione sempre più radicale degli scambi economici e finanziari. Liberalizzazioni, ristrutturazioni e trattati internazionali, in accordo con le grandi corporations, hanno portato i governi a cedere sovranità nella ricerca di un’auspicata crescita economica, ritenuta indispensabile per sostenere la spesa pubblica. Questa cessione, accettata forse per sostenere l’oneroso sistema di Welfare, ha portato ad un concomitante indebolimento del raggio d’azione dei governi nella salvaguardia dell’interesse nazionale, tanto economico quanto socio-culturale. In seguito al dissolvimento dei confini, lo stato-nazione così come lo abbiamo ereditato è andato in crisi. Che cos’è infatti la “nazione”? Dopo aver sottolineato la derivazione da “natus”, il Vocabolario Treccani specifica che nell’uso moderno il termine significa «il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia» o, più spesso, «l’unità politica realizzata in uno stato nazionale» ed anche «l’insieme dei cittadini che costituiscono la comunità nazionale». Se lo sviluppo del processo economico comporta l’indebolimento dei “confini”, questo non può avere degli effetti sulle consuete – ed oggi, da più parti, reclamate – tutele per custodire ed incrementare il sistema economico e geopolitico nazionale, a fronte dei processi di delocalizzazione o d’immigrazione. Alla dissoluzione dei confini prodotta dalla globalizzazione segue, cioè, la reazione tesa alla tutela guarda caso di quei “confini”: della cittadinanza, dei diritti e degli interessi di coloro che sono “nati” in un determinato territorio e di tutto di ciò che di buono essi e i loro padri vi hanno costruito. Posta in questi termini, evidentemente motivati dal risentimento, la questione della cura per la nazione viene immediatamente sottratta alla necessaria ragionevolezza e – una volta fomentata dalla retorica che specula sulla paura e sulla precarietà di molti – può condurre ad un devastante conflitto tra gli ultimi, in nome dell’impulso alla difesa di sé dalla minaccia costituita dall’altro. 11.jpgAll’uscita verso l’altro mossa da intenti che prescindono dall’umanità dell’uomo, dai suoi tempi e dalle sue modalità più alte, corrisponde una chiusura sul “sé” altrettanto lontana da quella stessa dimensione. Che dice la teologia di questa crisi antropologica, che qui si esprime nella reazione nazionalistica? Innanzitutto ci aiuta a riconoscere l’ordine nei valori. A motivo dell’orizzonte delle relazioni legate all’essere nati che ci costituisce, il rispetto per la nazione viene inquadrato nel quarto comandamento. Questo valore dipende tuttavia dal primo comandamento, che ci aiuta a criticare l’indebita sacralizzazione della patria implicita nella concezione nazionalista: «Io sono il Signore, tuo Dio […]. Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra» (Es 20,2-5). In forza della ragione illuminata dalla fede, possiamo quindi capire perché il cristianesimo e il nazionalismo risultano incompatibili. Quest’ultimo infatti sacralizza la nazione/patria, esaltandola rispetto a tutto il resto attraverso una separazione indebita dagli altri elementi dell’esistenza. Una dinamica che, in termini biblici, corrisponde all’idolatria, in cui l’amore per Dio verrebbe assimilato o subordinato a quello per la “nazione”. Nel contesto della dissoluzione dei confini seguita alla globalizzazione, siamo chiamati a resistere tanto al risentimento che produce il ripiegamento nazionalistico, quanto alla logica globalistica che separa gli esseri umani dalle comunità e dal costitutivo radicamento nei rispettivi territori, nelle storie e nelle lingue, rendendoli individui irrelati. La cultura di cui abbiamo bisogno prescinde, quindi, sia dall’universalismo astratto del “finanzcapitalismo”, sia dal particolarismo autoreferenziale dei molteplici “nazionalismi”. chagall_exodus-1966La possiamo invece attingere dal dinamismo che ordina la vita ecclesiale, descritto ad esempio dalla costituzione dogmatica Lumen gentium del Concilio Vaticano II: «le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità» (n. 13). È questo il patrimonio di sapienza cui attingere per rispondere alle sfide della globalizzazione, mettendo a disposizione di tutti la secolare esperienza “politico-relazionale” della Chiesa cattolica che è, su piani diversi, universale e particolare.