Da appartenenza a vera esperienza (“Nostro Tempo” 10 gennaio 2021)

Sfogliando le pagine del Corriere della Sera nell’ultimo giorno di questo 2020 decisamente pesante, ho trovato una sorta di conferma “statistica” a quella che ritenevo fosse semplicemente un’impressione. Mi ero infatti trovato più volte a pensare che gli italiani non fossero solamente minacciati dalla Pandemic fatigue, ossia da quella singolare condizione di spossatezza e di sfiducia dovuta sia all’emergenza sanitaria, sia ai provvedimenti adottati per contenere il contagio, ma anche da quella che per analogia vorrei qui chiamare Catholic fatigue.

Un affaticamento della comunità ecclesiale, quindi, che – nonostante il grande impegno di molti, tra chierici, religiosi e laici – sembra afferrare i cattolici italiani, privandoli nel complesso di quella vitalità testimoniale che è espressione di chi ha incontrato Cristo. Quella che era per me solo un’impressione, grazie al lavoro coordinato dal sociologo Franco Garelli ha assunto la forma di un’accurata ricerca condotta su base statistica, i cui risultati sono stati recentemente pubblicati nel volume Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, pubblicato da Il Mulino, e discusso nell’intervista con Stefano Lorenzetto per i tipi dell’insigne quotidiano milanese. Mettendo tra parentesi le perplessità sulla capacità delle indagini sociologiche di “misurare” le dinamiche della vita di fede, ritengo che sarebbe stolto non interrogarsi sui motivi che hanno portato Garelli a parlare di un «cattolicesimo stanco», che ha assistito – negli ultimi venticinque anni – ad una crescita dei non credenti del 30% e che ha visto le altre religioni passare dal 2 all’8%. Non si tratta certo di un’apocalittica “fine della religione”, come non pochi intellettuali profetizzavano maldestramente intorno agli anni Sessanta del Novecento, ma piuttosto di un generalizzato indebolimento della partecipazione alla vita ecclesiale.

Prete contro la riapertura delle chiese: «Non venite a messa, siate  prudenti» | Roma

È così che il sociologo rileva come prevalga in Italia «una religiosità fai da te», che porta coloro che ancora dichiarano di essere cattolici ad una pratica religiosa diminuita, a considerare i riti come facoltativi e a ricorrere «alla Chiesa nei momenti clou dell’esistenza». In definitiva, osserva Garelli, «oggi il bisogno religioso è più un’intenzione che un’esperienza», tanto che l’indagine porta a pensare che nei tre quarti degli italiani che continuano a ritenersi credenti prevalga «più un’attenzione culturale che spirituale». Quasi ad indicare il sedimento prodotto da una lunga e feconda storia, ora rappresentata da quella che agli occhi del sociologo appare, senza tanti giri di parole, come «una Chiesa stanca». Come rispondere dunque a questa spossatezza? Per quanto sia difficile trovare una terapia adeguata per donare nuova vita a questo nostro cattolicesimo “culturale”, apparentemente così estenuato, occorre almeno avere il coraggio di essere giusti con il Vangelo. Il primo passo per affrontare l’odierna Catholic fatigue consiste, in altri termini, nel rinunciare a pensare che il cristianesimo non abbia più nulla da dire alle donne e agli uomini delle cosiddette società progredite, come se ci si ritrovasse di fronte ad una narrazione di cui conosciamo già la fine e che non ha soddisfatto le nostre attese, per ascoltare (finalmente!) l’annuncio di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15).

Seeing Through the Darkness: Georges Rouault's Vision of Christ - Image  Journal | Painting, Cleveland museum of art, Art

È questo sostanzialmente l’invito che risuona con intelligenza e profondità dalle pagine de Il cristianesimo non esiste ancora (Queriniana, 2020), scritto dal confratello Dominique Collin dell’Ordine dei Predicatori. A motivo di una storia bimillenaria e di un contesto culturale che ci rimanda costantemente alle armoniche della cristianità, siamo troppo spesso portati a pensare il cristianesimo a partire da un passato che si è già compiuto, rimandando il “resto” – contrariamente agli esiti di ogni valido ragionamento metafisico – ad un’eternità proiettata in un altrove evanescente e, in fin dei conti, illusorio. Si finisce così per divenire custodi, spesso inconsapevoli, di una cristianità musealizzata in edifici di culto, riti, canti e pratiche che rappresentano perlopiù una “riserva” del bel tempo andato all’interno di una società rispettosamente indifferente. Che poi ogni proposta trovi un suo “pubblico”, che gradisce questa parentesi religiosa nell’orizzonte ormai secolarizzato dei nostri giorni… va da sé! Ma è a questo che ci chiama il Vangelo? Imbastendo un pensoso contrappunto sui Diari di Søren Kierkegaard, Collin ci invita a riflettere sul fatto che «il Vangelo è in anticipo rispetto a noi, che esso è ancora inaudito perché inaudibile finché perdura, per il cristiano, la finzione che gli fa credere di conoscere il senso del messaggio di Cristo». Se la nostra società risulta «“vaccinata” contro il cristianesimo» che si ritiene di aver già conosciuto, solo la consapevolezza che il cristianesimo “non esiste ancora” – come suggerisce la stessa nozione cattolica di Tradizione viva – può aiutarci ad ascoltare ex novo il Vangelo che risuona per invitarci oggi ad un’esistenza differente per grazia, senza costringerci ad una stanca coazione a ripetere.

Fare” l'Eucaristia è “spezzarsi” per gli altri! – LA VIA È APERTA

Se la realizzazione del messaggio di Cristo viene concepita come a-venire, allora può essere vista come qualcosa che ci attende, al di là di ogni restaurazione, ma anche di ogni riduttivo adattamento modernizzatore. Desideriamo infine passare dalle credenze del “cristianesimo di appartenenza” alla fede del “cristianesimo di esperienza”?

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