Avvento: i versi del profeta Isaia (“Nostro Tempo” 11 dicembre 2022)

Per chi vive ancora lasciandosi accompagnare dalla Chiesa nell’interpretare i segni dei tempi, la Liturgia della Parola dell’Avvento offre sempre di nuovo la possibilità di meditare – in un’ostinata ruminatio, consueta eppur capace di sorpresa!– quel capolavoro della letteratura biblica che attribuiamo al profeta Isaia. Si pensi a quanto scriveva san Girolamo: «Adempio al mio dovere, ubbidendo al comando di Cristo: “Scrutate le Scritture” (Gv 5, 39), e: “Cercate e troverete” (Mt 7, 7) […]. Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo. […] Intendo perciò esporre il profeta Isaia in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista e apostolo. […] Ma nessuno creda che io voglia esaurire in poche parole l’argomento di questo libro della Scrittura che contiene tutti i misteri del Signore.

Effettivamente nel libro di Isaia troviamo che il Signore viene predetto come l’Emmanuele nato dalla Vergine, come autore di miracoli e di segni grandiosi, come morto e sepolto, risorto dagli inferi e salvatore di tutte le genti» (Prologo al commento del Profeta Isaia, nn. 1-2; CCL 73,1-3). Per chi legge la Bibbia da discepolo di Gesù, alla cui luce si dischiude progressivamente il senso delle Scritture (cfr. Lc 24,27), molti passi di Isaia ci sorprendono per quanto precisamente delineano – al netto di ogni sospetto di retroproiezione confezionata ad arte – i tratti della vicenda evangelica. Tralasciando gli eloquenti passi sul Servo di JHWH, per rimanere nel clima dell’Avvento basterebbe appunto ricordare il segno della vergine che partorirà l’Emmanuele (Is 7,10-14), la profezia sul “Germoglio” che spunterà dal tronco di Iesse come vessillo per i popoli (Is 11,1-10) l’accorato invito a consolare il popolo disperso e ferito, preparando la via al Signore (Is 40,1-5), la descrizione del Messia «mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (Is 61,1-2), per finire col gioioso annuncio – indelebilmente legato al coro For unto us a Child is given, tratto dal Messiah di Georg Friedrich Händel – che prorompe dalla prima lettura della santa Messa nella notte della Natività: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. […] Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. […] Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine» (Is 9,1.5-6).  Il bisogno che oggi abbiamo di ascoltare queste parole, per intensità si avvicina solo alla bellezza dello stesso annuncio profetico. Non camminiamo forse ancora nelle tenebre della violenza e del vuoto che da ogni parte sembra assediare i nostri cuori e le nostre menti, sempre più assuefatte alle tattiche dittatoriali di strutture di peccato spesso anonime, ma all’apparenza così implacabilmente pervasive da imporre persino ai cristiani il prospetto spettrale di un destino ineluttabile?

Tempo della speranza per eccellenza, l’Avvento ci invita invece a lasciarci liberare dalla pesante oscurità che, spesso inconsapevolmente, ci opprime con gli abbagli delle finzioni quotidiane, per accogliere la Luce delicata e forte di Cristo che nasce per testimoniare che è possibile percorrere una strada alternativa – foss’anche a rischio della morte – perché in Lui abbiamo accesso alla vera vita, la vita eterna che già da ora pregustano coloro che credono. Spendersi per la pace, nella ricerca fiduciosa del verum, del bonum e del pulchum, ha quindi un senso, se Cristo ha vinto la morte e ci chiama efficacemente alla comunione eterna col Trinitas-Deus e i fratelli / le sorelle. La forza del messaggio evangelico, la forza della predicazione della Chiesa non può essere ridotta alla misura della nostra (spesso!) scarsa fede nel Dio cui tutto è possibile proprio nella forma dell’onnipotenza crocifissa, che troviamo già prefigurata nel legno della mangiatoia di Betlemme. Non so se quello che ho scritto pecca di “ecclesialese”; quel che so e voglio riportare è invece la testimonianza di qualcuno a cui il profeta Isaia è riuscito a parlare nonostante non si consideri un “credente”.

Modenese quasi suo malgrado, comunicato e cresimato nella parrocchia di Sant’Agnese, presto riconosciutosi “agnostico”, con tendenze vagamente panteiste, Francesco Guccini non è rimasto indifferente di fronte ad uno dei passi più enigmatici del profeta Isaia (Is 21,11-12), letti dal cantastorie nella traduzione – rigorosamente “laica” direbbero certi puristi – di Guido Ceronetti: «Guardia! Quando avrà fine la notte? / La Guardia dice – Sta venendo il mattino / Ma la notte durerà ancora / Tornate e ridomandate / Venite ancora insistete» (Il Libro del Profeta Isaia, Adelphi, Milano 1981). Da quel singolare incontro è sorta una delle canzoni più enigmatiche del Maestrone, la quarta dell’album Guccini uscito nel 1983, in cui viene ripresa la domanda rivolta alla sentinella di Isaia: Shomér ma mi-llailah?

Pur non condividendo la fede della Chiesa, che legge in questi versi soprattutto un invito alla conversione, Guccini restituisce un tratto comune dell’umano che non può comunque andar smarrito nella notte spirituale che stiamo faticosamente attraversando: «Cadranno i secoli, gli dei e le dee, cadranno torri, cadranno regni / e resteranno di uomini e di idee polvere e segni, / ma ora capisco il mio non capire, che una risposta non ci sarà, / che la risposta sull’avvenire è in una voce che chiederà». Isaia continua a parlare anche a chi non ha ancora incontrato il Salvatore; laddove non vi è (ancora?) la certezza della fede, vi sia almeno la perseveranza nella ricerca, ombra della speranza, sigillo di garanzia dell’umana resistenza al nulla: «perciò insistete, voi lo potete, ridomandate / tornate ancora se lo volete, non vi stancate…».

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