Come possiamo “salvare il Natale” (“Nostro Tempo” 12 dicembre 2021)

Presentando i provvedimenti che il Governo ha deciso di adottare per contenere la diffusione della pandemia, il Presidente del Consiglio ha manifestato l’intenzione di “salvare il Natale”. Per quanto non ci siano dubbi sul fatto che Mario Draghi si stesse riferendo alla dimensione socio-economica della festività, mi pare che quell’espressione comporti una singolare inversione che non può lasciare indifferente chiunque conosca il senso cristiano del Natale.

Nel celebrare la ricorrenza annuale della nascita di Gesù Cristo, la Chiesa contempla con gratitudine il mistero dell’Incarnazione facendo echeggiare nei secoli le parole dell’angelo ai pastori: «vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,10-11). Festeggiando il Natale la Chiesa esprime dunque la propria gioia per il dono che ci raggiunge nella persona di quel Bambino adagiato nella mangiatoia, che prefigura – come ha intuito Edith Stein, contemplando il Natale alla luce del mistero pasquale – il legno della croce alla quale Gesù fu inchiodato per la nostra salvezza. Per la fede cristiana non si tratta quindi di “salvare il Natale”, ma di celebrare la nascita di Gesù, unico Salvatore: «in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12). Ciononostante l’espressione impiegata dal Presidente del Consiglio, così bizzarra dal punto di vista teologico, ha continuato a ronzarmi nelle orecchie. Vi è forse un senso cristianamente plausibile che si potrebbe attribuire alle parole “salvare il Natale”? Al di là della volontà di salvare gli scambi commerciali sottesi al tradizionale scambio di doni natalizio o la possibilità di onorare il rito antropologico delle consuete riunioni familiari, quell’espressione – debitamente risignificata – potrebbe valere anche per la comunità cristiana intenta a celebrare il Natale nella sua verità. E non intendo nemmeno riferirmi alle proteste volte a salvare il termine “Natale” dalle strategie messe in campo dalla Commissione europea per favorire una comunicazione maggiormente inclusiva all’interno degli organi dell’Ue, suggerendo di sostituire il lessico cristiano con espressioni più generiche che si limitino ad impiegare parole più neutre – ma anche estremamente insignificanti – come “festività”. No, non è su questo piano che si tratta di “salvare il Natale”.

Se queste parole possono risultare cristianamente sensate, lo sono nella misura in cui rinviano ad un’antica dottrina radicata nella sacra Scrittura, le cui tracce sono riconoscibili già nella prassi battesimale della Chiesa delle origini. Mi riferisco al tema della nascita di Cristo nell’anima, il quale – come ha mostrato Hugo Rahner – compare negli scritti dei Padri della Chiesa e dei Dottori medievali, per giungere a maturità nei sermoni dei predicatori domenicani appartenenti alla scuola della mistica renana (Meister Eckhart, Giovanni Taulero ed Enrico Suso). Si pensi al celebre passo in cui san Paolo dichiara: «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20), all’auspicio formulato dall’autore della Lettera agli Efesini (3,17: «che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori») e, in particolar modo, alla fondamentale risposta di Gesù a Giuda, non l’Iscariota: «se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,24). Nel contesto di questa tradizione teologica, s’inserisce ad esempio il celebre sermone sulle “tre nascite” tenuto nel giorno di Natale dal teologo e mistico domenicano Giovanni Taulero. Come san Bernardo di Chiaravalle o san Tommaso d’Aquino prima di lui, il frate predicatore strasburghese richiamava il proprio uditorio a considerare, accanto alla generazione del Figlio dal Padre e a quella nel tempo dalla vergine Maria, anche «la terza nascita» che, secondo Taulero, «avviene quando Dio ogni giorno e in ogni ora nasce veramente e spiritualmente in un’anima buona, mediante la grazia e per amore». Questa nascita divina si realizza nel momento in cui, assecondando il dinamismo della grazia, il credente rientra completamente in sé stesso per poi uscirne rigenerato.

Accorgendosi del vuoto che lo abita ed esprimendo il solo desiderio di appartenere a Dio, l’uomo si dispone a lasciarsi riempire completamente da Lui: «tu devi tacere», ammonisce Taulero, «allora il Verbo di questa nascita potrà essere pronunciato in te e in te essere sentito. […] Se esci completamente da te stesso, senza alcun dubbio egli entra, interamente; egli entrerà né più né meno di quanto tu esci». Questa traduzione in chiave mistica della classica dottrina dell’inabitazione trinitaria per grazia, volta a realizzare in noi quel processo di divinizzazione reso possibile dall’Incarnazione, non ci conduce solo al cuore del cristianesimo significato da sant’Atanasio con le parole: «il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio» (De incarnatione, 54,23), ma ci permette di comprendere in che senso ogni cristiano sia chiamato a “salvare” il Natale. Acconsentendo alla nascita di Gesù Cristo per grazia nel cuore, ogni credente accoglie la Vita che ha iniziato a donarsi attraverso quella nascita singolarissima dalla Vergine Maria compiutasi a Betlemme. Chi desidera celebrarla effettivamente, permetta a Cristo di nascere nella propria anima.

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