Testimoni veri e misericordiosi (“Nostro Tempo” 14 febbraio 2021)

Come forse ricorderanno i miei “venticinque lettori”, il titolo di questa rubrica mensile s’ispira ad un sogno. Nel Libellus de principiis Ordinis Praedicatorum leggiamo che alla beata Giovanna d’Aza, prima di concepire il suo ultimogenito, «era parso in visione di portare in seno un cagnolino, il quale, tenendo in bocca una fiaccola ardente, una volta uscitole dal grembo, sembrava dar fuoco a tutto il mondo». Il sogno annunciava la missione di san Domenico di Guzman, «predicatore insigne che, col latrato della sacra dottrina, avrebbe destato le anime addormentate nel peccato, spargendo per il mondo intero quel fuoco che il Signore Gesù era venuto a portare sulla terra [cfr. Lc 12,49]». Il “latrato” di Domenico riecheggia da allora attraverso i suoi figli, chiamati ironicamente domini-canes, impegnati – con esiti più o meno felici – al servizio del Vangelo.

Proprio quest’anno, si celebra l’ottavo centenario dalla morte dell’instancabile predicatore spagnolo, avvenuta a Bologna, il 6 agosto 1221, il cui Anno giubilare è stato inaugurato durante la santa Messa dell’Epifania presieduta dal cardinal Zuppi nella Basilica che custodisce le spoglie mortali del Santo stesso. L’Arcivescovo di Bologna, dopo aver ricordato che Domenico «raggiunse ed abitò i luoghi cruciali dove si viveva la ricerca intellettuale e teologica, dove tanti si incontravano perché centri di dialogo, di ricerca come l’università», ha sottolineato come egli continui a spingerci «ad andare di nuovo lì, a capire quali sono oggi, a non escluderci con diaframmi e protezioni, a non pensare di custodire la verità costruendo monasteri difesi da mura di paura e ignoranza, difendendo un tesoro che disincarnato non ha valore, un lievito che si rivela inutile perché non si perde nella pasta, un sale che diventa scipito proprio perché non si scioglie per dare sapore a tutto il resto». Parole opportune che ricordano come Domenico non appartenga solo all’Ordine di cui è stato il fondatore, ma prima e soprattutto alla Chiesa nella sua interezza, ad ogni fedele che – in forza del Battesimo – è chiamato ad ascoltare la Parola, per condividerla generosamente con altri. Vir evangelicus, che visse fedelmente in medio Ecclesiae, Domenico operò tenacemente per diffondere la Verità che è Cristo, da un lato, persuadendo coloro che l’avevano confusa con una spiritualità disincarnata, nemica dell’uomo e, dall’altro, favorendo lo studio della teologia come premessa per una predicazione efficace, che scaturisse dalla vita fraterna in comunità. Qual è l’intramontabile aspetto del carisma domenicano che siamo chiamati a rimettere in gioco proprio in occasione di questo centenario? Lo troviamo, a mio parere, in una nota pagina evangelica: «sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 9,34).

Quel che santa Caterina da Siena attribuiva a Domenico, ossia l’aver preso su di sé l’onore di continuare nella storia l’ufficio del Verbo, trova nella dinamica espressa dall’evangelista Marco la cifra del suo esercizio. Anche la predicazione di Domenico, come l’insegnamento di Gesù, procede dalla compassione viscerale per l’esperienza di smarrimento degli uomini che – come “pecore senza pastore” –  si trovano a vivere in modo narcisistico, ognuno per se stesso e in competizione con l’altro, privati del centro vitale unificante. Non occorre una profonda conoscenza della storia per rendersi conto che, se lasciato in balia della propria miseria, l’uomo profondamente impaurito diviene simile al lupo e – nell’ansia di procacciarsi autonomamente quella vita che avrebbe dovuto ricevere in dono solo dal Pastore, mentre scorre via in modo ineluttabile – finisce per dilaniare ossessivamente gli altri uomini. La missione domenicana si caratterizza infatti per la capacità di tenere insieme la Misericordia e la predicazione della Verità, così come non si possono separare la sorgente e il fiume che da essa prende origine. Non è forse vero che, almeno rispetto alla qualità spirituale dell’uomo e della donna contemporanei, risulta pienamente attuale la constatazione attribuita dal profeta al Signore: «Perisce il mio popolo, per mancanza di conoscenza» (Os 4,6a)? Evidentemente non si tratta qui di una conoscenza meramente intellettuale o nozionistica, ma piuttosto di quella conoscenza di carattere sapienziale – fatta tanto di intelligenza, quanto di affettività – che consente all’uomo di poter vivere in pienezza, perché corrisponde all’esperienza stessa della relazione con Cristo. L’itinerario spirituale inaugurato dal Giubileo può allora rappresentare una preziosa occasione per affinare la nostra sensibilità al fuoco della misericordia Veritatis.

Attinto al cuore stesso di Cristo, il fuoco dello Spirito Santo può animare la testimonianza di ciascuno di noi e contribuire così a guarire i nostri contemporanei da quella peculiare ignoranza del Vangelo che consiste nell’illudersi di averlo già conosciuto e trovato però inefficace. Se è vero che non si può amare quel che non si conosce, occorre che Cristo e il suo Corpo che è la Chiesa siano effettivamente conosciuti per essere amati, dischiudendo così all’uomo l’autentica realizzazione nella dedizione di sé, come inizio della vita eterna che – nella fede, speranza e carità – ci attende in pienezza. Se la compassione di Dio si manifesta nella storia in diversi modi, il carisma donato a Domenico – si legge in un documento ufficiale dell’Ordine – tocca il mondo attraverso lo studio e la misericordia della Verità.

Pubblicità