Punto di ristoro per nutrire la fede (“Nostro Tempo” 14 maggio 2023)

 «L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo». Quest’espressione tratta dal Prologo al Commento ad Isaia di san Girolamo, citata laddove la costituzione dogmatica Dei Verbum (1965) del concilio Vaticano II raccomanda la lettura della sacra Scrittura a tutti i fedeli, coglie da secoli il punto: per conoscere Gesù Cristo occorre passare dalla Scrittura. Non è possibile alcuna forma sostitutiva, né storica, né metafisica. La Scrittura svolge, da questo punto di vista, una mediazione insostituibile per incontrare Cristo. Il racconto dei discepoli di Emmaus sta lì ad attestarlo per i secoli a venire. L’ultima pubblicazione di PierAngelo Sequeri, Iscrizione e rivelazione. Il canone testuale della parola di Dio, curata da Francesca Peruzzotti per i tipi di Queriniana, sembra essere scritta per suscitare nei lettori la stessa domanda di quei due discepoli che si stavano lasciando Gerusalemme alle spalle: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32).

Al di là della complessità del periodare e dei riferimenti, il nucleo di quest’ultima raccolta del teologo milanese mira a suscitare un ripensamento della collaborazione tra esegesi e teologia a vantaggio dell’apprezzamento del corpus canonico delle Scritture. La comprensione fenomenologica dell’integrità del canone testuale della parola di Dio entra in contrasto con ogni selezione aprioristica e pregiudiziale del corpus biblico in parti più o meno significative, riducendo la Scrittura ad una sorta di antologia documentale più facilmente affidabile ad una lettura fondamentalistica. «La lettera è iscrizione della rivelazione passata a futura memoria: la sua interezza è il canone scritturale, che consente di custodire la rivelazione riconoscibile» (p. 32). Questa comprensione della mediazione scritturale, assolutamente irriducibile ad una sorta di “involucro” di una rivelazione altrimenti accessibile, fa tutt’uno con l’esperienza che si compie nella liturgia, laddove Cristo «è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura» (Sacrosanctum Concilium, n. 7). Le pagine di Sequeri, senza cedere sul piano teorico, tendono a mostrare come la recezione liturgica produca un coinvolgimento che, nell’oltrepassare ogni autoreferenzialità, esprime operativamente la funzione testimoniale della Scrittura «per me, come per l’altro».

Come scrive, con intensità, lo stesso teologo milanese: «L’edificio rituale della celebrazione, precisamente come ordinamento simbolico destinato a mettere in asse l’evento fondatore, istituisce la condizione permanente dell’atto di fede che ha nella lettura/ascolto delle Scritture sacre il suo archetipo. Al di fuori del legame con la ripetizione di questa struttura originaria dell’attestazione, la fede individuale non difetta semplicemente di un momento espressivo e/o comunitario. Piuttosto, perde semplicemente la possibilità di essere restituita alla effettività – storica e spirituale – del suo fondamento storico, trasformandosi fatalmente nell’infinita dilatazione della sua distanza da esso» (p. 56). Contrariamente all’individualismo che domina il contesto occidentale, l’esperienza della Scrittura è per Sequeri un’esperienza comunitaria nella quale la fede – qualora rimanesse ancorata alla sola dimensione individuale – rischierebbe di mancare l’incontro col Cristo che il canone scritturistico intende rendere possibile.

Dal decennale confronto del teologo milanese con le scienze umane, derivano poi una serie di preziose osservazioni sulla Scrittura come lingua materna. Le scienze umane ci hanno, ad esempio, insegnato che la lingua materna non è quella nella quale impariamo ad esprimerci normalmente, ma quell’insieme di dispositivi attraverso i quali si entra nel linguaggio universale umano (vocabolario, grammatica sintassi; vocalità e scrittura; ninne-nanne e canzoni preferite, narrazioni genealogiche sulla famiglia, la memoria delle biografie; storie di conflitti, perdite, eventi felici; le storie dei vicini e gli eventi della città; ecc.). Attraverso questo ricco insieme multiforme ogni bambino nella relazione con la madre sviluppa la propria capacità linguistica in senso ampio. Esegeti e teologi – operando nella Chiesa per onorare il primato della Parola di Dio – sono così chiamati a restituire previamente «alle sacre Scritture la loro funzione di “lingua materna”: nella quale si impara a parlare, anche se poi la competenza discorsiva sarà appropriata e sviluppata ben oltre i limiti di quella iniziazione» (p. 129). Non si tratta dell’ebraico, dell’aramaico o dell’ebraico in cui si esprime la parola di Dio che di per sé, non è né ebraica, né aramaica e neppure greca. Il fatto è, come nota giustamente Sequeri, che «la lettura individuale e privata, a diretto contatto coi testi, senza grembo affettivo e linguistico della tradizione e della comunità è anche irrimediabilmente esposta a uno stato confusivo e arbitrario» (p. 153).

Si tratta quindi di recuperare quel contesto interpersonale/comunitario e affettivo in cui viene a dischiudersi il senso stesso delle Scritture, consegnate alla Chiesa perché attraverso di esse si creda e credendo si abbia la vita in pienezza. La Bibbia è il libro del popolo di Dio, scritto per ispirazione dello Spirito Santo da uomini appartenenti al popolo di Dio per le donne e gli uomini che a loro volta vi appartengono e che sono chiamati a comprenderne i testi con lo Spirito con cui sono stati scritti. Penso infine che nel riconoscere la necessità per l’efficacia della lettura biblica del «rapporto con il grembo testimoniale e con l’orientamento affettivo della comunità di fede», Sequeri si riferisca all’indispensabile dimensione ecclesiale, animata dallo Spirito Santo. Come riattualizzare, altrimenti, l’esperienza dei discepoli di Emmaus?

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Costruire la pace in tempi difficili (“Nostro Tempo” 04 aprile 2023)

L’antifona che apre la celebrazione della santa Messa nella solennità della Risurrezione – pur nell’infierire di giorni macchiati dal sangue di soldati e migranti e di altri dolori – risuona con l’esultanza dello jubilus di sempre: «Il Signore è veramente risorto. Alleluia. A lui gloria e potenza nei secoli eterni. Alleluia, alleluia»! Già sant’Agostino, commentando il salmo 32, ne ha lucidamente espresso il senso: «comprendere e non saper spiegare a parole ciò che si canta col cuore. […] E verso chi è più giusto elevare questo canto di giubilo, se non verso l’ineffabile Dio? Infatti è ineffabile colui che tu non puoi esprimere. E se non lo puoi esprimere, e d’altra parte non puoi tacerlo, che cosa ti rimane se non “giubilare”?».

Quel che non possiamo comprendere è anche la persistenza della zizzania che soffoca il buon grano che il Signore continua a far crescere nello scorrere dei giorni (cfr. Mt 13,24-32). Non lo comprendiamo nelle vicende della nostra personale esistenza e fatichiamo ancor più quando siamo costretti a considerare il mysterium iniquitatis che depriva la storia: guerre, inequità, molteplici forme di violenza dell’uomo sull’uomo… eppur, oggi, celebriamo la fede nel Risorto che porta la nostra intelligenza ad aderire liberamente a ciò che non sappiamo in alcun modo “dimostrare”, né potremmo farlo: «Mors et vita | duéllo conflixére mirándo: | dux vitae mórtuus regnat vivus. […] Scimus Christu | surrexísse a mórtuis vere | tu nobis, victor Rex, | miserére» (Morte e Vita si sono affrontate | in un prodigioso duello. | Il Signore della vita era morto; | ma ora, vivo, trionfa. […] Sì, ne siamo certi: | Cristo è davvero risorto. | Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi). Questa è l’unica “vittoria sul campo” che è doveroso volere, l’unica che è giusto celebrare, la vittoria del Crocifisso sul peccato e sulla morte nella Risurrezione. Solo da questa vittoria viene il dono della pace per tutti e per ciascuno, nonostante la resistenza che ancora vi opponiamo nelle piccole cose, così come nelle grandi vicende della storia.

Giovanni XXIII firma la Pacem in Terris, in Vaticano, il 9 aprile 1963

È la certezza che nella fede condividiamo con papa Francesco, ma anche, per una singolare congiuntura, con san Giovanni XXIII, il quale l’11 aprile del 1963 espresse promulgando la Pacem in terris, nel contesto della Guerra Fredda, quando per la prima volta l’umanità fu colta dal terrore di un conflitto nucleare. In prossimità del suo sessantesimo anniversario, l’enciclica mostra senz’ombra di dubbio – e non senza un certo rammarico dovuto agli eventi che stiamo vivendo – la sua persistente attualità. Il santo Pontefice chiedeva quel che l’attuale vescovo di Roma non si stanca di implorare: la messa «al bando delle armi nucleari», la seria intenzione di pervenire finalmente «al disarmo integrato da controlli efficaci» (n. 60), «il consolidamento della pace» (n. 89). Lo riteneva un obiettivo conseguibile, estremamente ragionevole e desiderabile, nonché della più alta utilità per tutta la famiglia umana (cfr. nn. 61-63). Detto in altri termini, nel tempo della deterrenza nucleare e delle superpotenze, l’antico concetto di “guerra giusta” – elaborato storicamente in ambito teologico, per gestire i conflitti – veniva saggiamente decostruito de facto, non de iure, custodendo quindi la ragionevolezza della legittima difesa a fronte di un esercito aggressore. 

Il messaggio di Pacem in terris,ripreso originalmente da papa Francesco, consiste nel considerare la guerra – a fronte all’enorme sproporzione esistente quindi tre le situazioni “sul campo” che potevano darsi nel medioevo in cui si teorizzò la “guerra giusta” e quelle cui possono arrivare oggi le superpotenze dopo la proliferazione degli armamenti nucleari – una “follia” e il conclamato “fallimento” della politica e della diplomazia. Queste ultime dovrebbero quindi guardare piuttosto a come custodire l’umanità nella pace possibile per gli uomini, quella pace come tranquillitas ordinis, che sant’Agostino (De Civitate Dei XIX,13)considerava forse come il compito principale di chi si trova a ricoprire posizioni di governo politico. Benché i principali players internazionali sembrano oggi non fare nulla per evitare che la “terza guerra mondiale a pezzi” si trasformi in tragica realtà, non tutto è perduto. La celebrazione della Risurrezione ci rinfranca nel cammino e ci sprona ad incrementare l’impegno per la pace, a partire dalla preghiera e dalla testimonianza quotidiana. Scriveva san Giovanni XXIII: «Come vicario — benché tanto umile ed indegno — di colui che il profetico annuncio chiama il Principe della pace, (cf. Is 9,6) abbiamo il dovere di spendere tutte le nostre energie per il rafforzamento di questo bene. Ma la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà. È questa un’impresa tanto nobile ed alta che le forze umane, anche se animate da ogni lodevole buona volontà, non possono da sole portare ad effetto. Affinché l’umana società sia uno specchio il più fedele possibile del regno di Dio, è necessario l’aiuto dall’alto» (nn. 89-90).

E quest’aiuto non manca mai… siamo noi che dobbiamo rinunciare ad ogni ostacolo che ci impedisce di accogliere il dono della Pace che il Crocifisso risorto ci ha donato. Presente in ognuno dei suoi “fratelli più piccoli” (cfr. Mt 25,40) che soffre per la violenza delle strutture di peccato che avvelenano questo mondo, il Signore non ci abbandona: «La sera di quello stesso giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”» (Gv 20,19). Non c’è augurio di Pasqua, checché se ne dica, che non sia un in definitiva augurio di pace.

Un vero esempio di libertà interiore (“Nostro Tempo” 12 marzo 2023)

Dal 22 febbraio il domenicano modenese fr. Paolo Garuti, classe 1955, non è più tra noi a raccontarci con empatia la crudeltà del conflitto israeliano-palestinese osservata a Gerusalemme e soprattutto ad aggiornarci sulle ultime trovate di sconosciuti “scienziati” della Sacra Pagina, ch’egli invece conosceva dall’interno tanto in qualità presbitero dell’Ordine dei predicatori sinceramente appassionato della Sacra Scrittura (vagliata con acribia attraverso i moderni strumenti del metodo storico-critico e della retorica), quanto e ancor più come professore di Esegesi del Nuovo Testamento presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Angelicum) e l’École biblique et archéologique française di Gerusalemme.

Le volte che ho incontrato l’erudito confratello ho sempre ricevuto il dono di originali prospettive su diverse pagine della Scrittura, capaci di risvegliare una densità di senso ch’era andata ecclissandosi con la consuetudine dell’ascolto. Il tutto accompagnato da argute battute, tipicamente emiliane, che sulle prime mai mi sarei aspettato dal raffinato intellettuale di fama internazionale, a motivo di puntigliosi studi sulla struttura retorica della Lettera agli Ebrei. La prima volta che lo incontrai, ad esempio, ero un semplice studente universitario e il parroco d’allora – che conosceva bene fra Paolo e lo stimava  per l’indubbia competenza nelle scienze bibliche – mi invitò ad un incontro sull’Apocalisse. Dopo la conferenza, centrata sulla difficoltà del testo e sulle meraviglie implicite nella sua struttura, venni presentato al celebre esegeta. Al di là dell’abito domenicano che portava con incurante eleganza, mi sembrava di aver davanti uno di quei dinoccolati intellettuali francesi che studiavo in quel periodo all’Alma Mater Studiorum.Per qualche istante, incontrando quel giovane universitario che ero anche in qualità di suo concittadino, fra Paolo abbandonò l’italiano forbito ed impeccabile, per assumere un accento nostrano e concludere più o meno così: «Sei di Modena anche tu? E studi filosofia all’Università di Bologna?». «Certo Padre, volevo ringraziarla per l’accurata ed originale conferenza sul libro dell’Apocalisse…». «Grazie a te», rispose il celebre biblista al curioso studente d’allora e aggiunse con sorniona benevolenza: «Un modenese filosofo… beh! Una vera e propria contraddizione in termini…». Se ne andò veloce, sorridendo, ma lasciandomi un grande senso di gratitudine per quell’attimo di attenzione, capace d’infondere fiducia, con l’ironia delle persone realmente competenti, le quali – insieme a tanti difetti, com’è per tutti noi – hanno la rara libertà interiore che li porta a non proporsi come modelli.

La stessa ironia la applicava anche ai grandi dell’Ordine: non solo a Marie-Joseph Lagrange O.P., fondatore dell’École, ma persino a san Tommaso d’Aquino, con cui inframmezzava le rigorose analisi filologiche e storico-critiche alla Lettera agli Ebrei, sostenendo che il commento dell’Aquinate a quella Lettera fosse ancora pienamente valido. Ciononostante non si tratteneva molto – e a ragione – dal canzonare bonariamente coloro che volevano far del lascito di san Tommaso l’unica cosa da sapere (e forse pure malamente), ignorando tutto il resto. Autore di studi di alto tenore scientifico come la tesi di dottorato, scritta con un supervisore del calibro di fr. Marie-Emile Boimard O.P. e pubblicata nel 1995 col titolo Alle origini dell’omiletica cristiana. La lettera agli Ebrei – Note di analisi retorica e di decine di studi altamente specialistici, fr. Paolo maneggiava le vaste conoscenze filologiche, storiche e teologiche per chiarire alcuni dei passaggi più ardui del Nuovo Testamento alla luce di una singolare competenza acquisita sia sul versante ellenistico, sia su quello ebraico. Per celebrarne la memoria con la più sincera gratitudine, intendo menzionare solo due scritti “minori” che mi ricordano tanto di fr. Paolo.

Penso in primis ad un breve saggio in cui l’esegeta modenese fa il punto di uno dei passaggi cristologici più celebri della Lettera agli Ebrei: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7). Che senso attribuire alle lacrime di Gesù? Dopo aver considerato un arco di testi, da Omero e Platone fino alle recenti tesi dottorali, fr. Paolo concludeva che «le lacrime di Gesù non sono né un segno di debolezza, né una forma di solidarietà con l’umano e neppure, in termini culturali antichi, una tappa della kenosis: sono, per Ebrei (e per Luca) un richiamo preciso all’eroe mediterraneo, che affronta la lotta accettandone i rischi (12,2 […] “spezzando l’ignominia”), per raggiungere la gloria (2,9 […] “vediamo Gesù per il patimento della morte coronato di gloria e di onore”), la conoscenza e il τέλος, la perfezione, il fine del cammino: […] conveniva infatti a colui che per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, per condurre molti figli alla gloria, rendere perfetto per mezzo di patimenti il condottiero della loro salvezza» [in Angelicum, 90, 3, (2013), p. 616].

L’altro contributo riguarda il beato Giuseppe Girotti, O.P., già allievo di quell’École Biblique, fondata da fr. Marie-Joseph Lagrange O.P., che ha visto tra i suoi studenti e professori lo stesso fr. Paolo Garuti. Ricostruendo la vita del Beato, martire in odium fidei, morto a Dachau “per aver aiutato gli ebrei” solo a motivo della carità, in uno denso articolo [Revue Biblique, 121 (2014), pp. 427-436], fr. Paolo concludeva riconoscendo che «il padre Girotti non è stato beatificato per il suo carattere, né per la sua esegesi, ma è stato senza dubbio una delle migliori promesse degli studi biblici in Italia». È con la stessa onesta ammirazione che intendo ricordare fr. Paolo Garuti: presbitero domenicano, esegeta rigoroso, elegante predicatore e amico.

La sapienza, figlia della carità (“Nostro Tempo” 12 febbraio 2023)

«C’è bisogno di sapienti in un mondo sempre più folle, che costruisce la sua rovina, che si abitua alla guerra e osserva tutto come se non lo riguardasse, incapace di guardare il futuro, che sceglie la morte e non la vita, che pensa di difendere i diritti dell’individuo dimenticando il prossimo, e quindi distruggendo l’individuo stesso. Ci aiuta san Tommaso d’Aquino che si è lasciato “toccare” da Dio e che con la disciplina propria della ragione ha cercato le insondabili ricchezze del mistero. È un vero Doctor humanitatis attento alla verità e all’amore per l’uomo, per questo attento anche a confutare gli errori ma sempre indicando l’amore di Dio». Ho avuto modo di ascoltare, con gioia e gratitudine, queste parole dalla viva voce del cardinal Matteo Zuppi, venerdì 27 gennaio scorso, nell’omelia tenuta nella Messa per la festa del Santo Dottore celebrata nella Basilica di san Domenico a Bologna. I sapienti di cui c’è estremo bisogno sono quelli che, come l’Aquinate, sono stati resi tali dalla Sapienza che si apprende studiando sul «libro della carità», che coincide con «la stoltezza della croce» che confonde «i sapienti secondo il mondo».

Nel presentarlo in questo modo, l’Arcivescovo chiamato a presiedere la Conferenza Episcopale Italiana rende giustizia a san Tommaso e alla sua opera, riconoscendo che la sua predicazione come teologo accademico procede dall’essersi lasciato toccare dal mistero di Dio rivelatosi in Cristo. La sacra doctrina ch’egli ha esplorato è partecipazione alla scienza divina, appresa nell’ascolto della Parola, ossia nella relazione con Gesù, il Figlio, che si esprime nel discepolato come forma di vita. Solo un “piccolo” in senso evangelico, un mendicante di verità, può descrivere la ricerca teologica come quella singolare relazione in cui si diviene consapevoli che la ragione viene come “condotta per mano” («manuducta») dalla fede, ossia dal riconoscersi radicalmente persuasi dalla grazia del Crocifisso che attrae come Verità e Misericordia, disponendo ad amare come il Cristo ha amato. Per essere pienamente tale, la fede non può mancare di carità. Se sul pensiero dell’Aquinate gravano ancora troppi fraintendimenti e pregiudizi, dovuti non in piccola parte all’opera di maldestri pseudo-tomisti che ne hanno fatto una sorta di clava filosofico-teologica per inculcare proposizioni così vere da doversi credere a forza (?!) o per censurare la creatività del pensiero, risulta quasi impossibile eclissare quella sapienza che traspare ancora dai suoi scritti. Al punto che il cardinal Zuppi, difficilmente annoverabile tra i “tomisti”, dopo aver richiamato l’interpretazione che san Tommaso sviluppa della carità come amicizia con Dio riconosce serenamente che «anche la Chiesa ha tanto bisogno di questa sapienza, quella di un Vangelo vivo, non ridotto a passione superficiale, a elisir di benessere individuale, ma capace di illuminare il mistero e la vita tutta».

Lungi dal corrispondere all’immagine razionalizzante di un inesistente san Tommaso “calcolatore sistematico di proposizioni”, derivata piuttosto dalle reazioni del tomismo al nominalismo e poi all’illuminismo, il rigore argomentativo dell’Aquinate proviene invece dalla cura del predicatore che – nel porsi a servizio della Chiesa e dell’umanità, commentando la Sacra Scrittura nel contesto universitario – intende insegnare a riconoscere quel Cristo che ha effettivamente incontrato, contemplato e ricevuto nella liturgia e nella vita fraterna. Una limpida testimonianza di questo stile la troviamo  nel commento al passo del Quarto vangelo, al quale forse alludeva il cardinal Zuppi: «vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Scrive Tommaso: «Infatti è un vero segno di amicizia il fatto che l’amico riveli all’amico i segreti del cuore. Essendo infatti gli amici un cuor solo e un’anima sola, quanto l’amico svela all’amico non sembra che lo collochi fuori del proprio cuore. […] Ora, rendendoci partecipi della sua sapienza, Dio rivela a noi i suoi segreti». E aggiunge: «udire non è altro che ricevere il sapere da un altro, per il Figlio udire dal Padre equivale a ricevere da lui la scienza. Ora, la scienza del Figlio è la sua essenza. Perciò, per il Figlio udire dal Padre significa ricevere da lui l’essenza».

Pensiamo all’icona del Cristo-Maestro: nel predicare/insegnare il Figlio si dona a noi come ad amici ed è per questo che – contrariamente ad una curiosa dissociazione, piuttosto recente – risultava pienamente ragionevole al frate domenicano quel che aveva appreso da sant’Agostino: non si può amare, quel che non si conosce. Il conoscere e il far conoscere nella vita cristiana è un atto d’amore d’amicizia. Gesù, infatti, è Maestro perché amico che ci chiama e ci rende amici: «Cristo diede la sua vita per noi nemici non in quanto nemici, ossia così che restassimo nemici, ma per renderci amici». Prima di moltiplicare i pani e i pesci per dar da mangiare ai cinquemila, Gesù «vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose» (Mc 6,34). Ecco di cosa c’è oggi «tanto bisogno»: apprendere da Cristo a guardare con compassione alla dispersione e allo smarrimento delle donne e degli uomini del nostro tempo, per prendersene cura tenendo insieme l’insegnamento e il nutrimento al fine di togliere gli ostacoli che impediscono di “accorgersi” di quanto il Trinitas-Deus ha compiuto perché avessimo vita e vita in abbondanza (cfr. Gv 10,10). Per l’Occidente che ha ritenuto di non aver più bisogno di “maestri”, rimanendo tuttavia più o meno indifferente di fronte ai “testimoni”, sembra avverarsi la parola del profeta: «Perisce il mio popolo per mancanza di conoscenza» (Os 4,6). Soprattutto per questo abbiamo anche «tanto bisogno» dell’aiuto del Doctor humanitatis.

In Dio il tempo ritrova un senso (“Nostro Tempo” 15 gennaio 2023)

Per quanto possa a ragione essere considerata meramente convenzionale o, almeno a tratti, persino triviale, la celebrazione del capodanno civile segna comunque una cesura nel continuum temporale della nostra esperienza invitandoci a riflettere sul fatto – non proprio irrilevante – che l’anno vecchio è trascorso, mentre quello nuovo ci attende con le sue promesse e le sue sfide. Non è certo il caso d’indugiare sui ricordi del liceo, eppure tra le riflessioni di questi primi giorni dell’anno s’affaccia fulmineo e lacerante l’eco del Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere, in cui il pensoso poeta mette brevemente in scena l’intreccio – occasionato dall’offerta d’un lunario per l’anno a venire – tra la delusa considerazione della vita com’è trascorsa e la testarda speranza per cui si continua a considerar bella e felice la vita futura, che non conosciamo e in cui speriamo. Senza cedere al disincanto del Leopardi, quanto all’inesorabile rivincita del caso sull’inguaribile attesa di una provvidenziale vita a venire, tenderei piuttosto a dar credito al Venditore, il quale – incalzato dallo scetticismo desolato del Passeggere: «Oh che vita vorreste voi dunque?» – risponde con semplicità disarmante: «Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti». L’accondiscendenza benevola con cui il Passeggere congeda il Venditore d’almanacchi lascia nel lettore una traccia di umana pietà per quell’arrendevole speranza nel divino, dolorosamente decostruita dalle stesse considerazioni del passante al cui confronto quel “vorrei” pare né più, né meno che una pia illusione. Se la maestria del Leopardi sta non da ultimo nella capacità di provocare questo ed altri effetti nel lettore, la letteratura lascia nondimeno la libertà di variare per via d’immaginazione l’interpretazione data dall’autore alla sua stessa creazione.

Volendo quindi dar credito al Venditore si potrebbe innanzitutto mettere a fuoco un elemento tutt’altro che banale: la speranza che quest’uomo semplice nutre nei confronti dell’anno nuovo si radica non nelle proprie forze, né nel gioco casuale degli eventi, ma in Dio che “manda” una vita tale da non poterne desiderare alcun’altra. A prendere l’espressione del Venditore sul serio, assumendone cioè il punto di vista senza lasciarsi surrettiziamente persuadere da quello del Passeggere (o dell’autore stesso!), si resta stupiti dall’intensità d’intelligenza e di fede che quella risposta lascia trasparire. A differenza del Passeggere, infatti il Venditore sembra aver ben chiaro che non vi può essere risposta alla domanda su di sé che trascuri il fatto che la vita che viviamo o che desideriamo non proviene da noi stessi. Scavando un poco più a fondo, si potrebbe sostenere che quel semplice commerciante ha ben chiaro che la sua stessa vita gli è ”mandata”, ossia che egli – come ciascuno di noi – è dato/donato a se stesso. È quindi l’umile consapevolezza di non essere la fonte del proprio stesso esserci, dell’essere piuttosto e in primo luogo recettore dell’esistenza e della vita a giustificare l’appello a Dio come “mandante” di quella stessa vita e quindi come datore/donatore di quel che il Venditore d’almanacchi semplicemente “è”.

Questa consapevolezza può essere chiamata “fede”, intendendo qui con Romano Guardini quell’atto in forza del quale «comprendo la mia finitezza prendendo le mosse dall’istanza suprema, dalla volontà di Dio» (Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 20226, p. 19). Per quanto non voglia vivere come ha vissuto in passato, il Venditore non smette di guardare alla vita come possibilità di felicità perché desidera continuare a ricevere la vita da Dio nell’accettazione di sé, senza cedere alla disperazione, ma perseverando nell’attesa. Dar credito al Venditore di almanacchi vuole dire allora riconoscerne la profonda religiosità, nel senso in cui l’interpreta ancora una volta Guardini come disposizione a «ricevere continuamente noi stessi da questa volontà di Dio», in cui si può scorgere «l’alpha e l’omega di tutta la sapienza, il rifiuto della hybris, la fedeltà alla realtà, l’onestà e la risolutezza dell’esser se stessi e con ciò la radice del carattere. È la fortezza, che si presenta all’esistenza e appunto in ciò si rallegra di quest’esistenza» (Ivi, p 21). A leggere il dialogo con l’intelligenza della fede, al di là della più che probabile intenzione dell’autore, quel “vorrei” assume allora  un tenore ben più consistente della presunta pia illusione. Rivela invece la semplice profondità del “cristiano comune” il quale, reso Figlio per grazia, non desidera che accettare la vita dal Padre come un dono. Accettazione di sé e fiducia nella concreta possibilità di realizzazione a venire trovano così una sorta di punto di equilibrio nel sapersi confermati nell’essere, per così dire, dall’Alt(r)o.

Solo nella relazione con Dio, dal quale proveniamo e al quale andiamo, è infatti possibile trovare chi siamo, evitando quell’altra dilaniante circolarità costituita dall’orgogliosa presunzione del sedicente “proprietario-di-sé” che prima o poi si rovescia nella disperata delusione di chi si ritrova disperso negli interminabili rispecchiamenti di un vuoto faccia a faccia con se stesso. In un senso molto diverso dall’imperativo all’autorealizzazione che tormenta i concitati giorni dell’uomo tardomoderno costretto a farsi “imprenditore-di-se-stesso”, in un delirio di vacua autoreferenzialità, il Venditore d’almanacchi si fa umile testimone di una sapienza antica e sempre nuova che pur ci invita – paradossalmente, per grazia – a “divenire chi siamo”. Si tratta, guarda caso, del segreto rivelato per Uno a vantaggio di tutti e che risuona nella Festa del Battesimo del Signore: «Ed ecco una voce dal cielo che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”» (Mt 3,17).

Avvento: i versi del profeta Isaia (“Nostro Tempo” 11 dicembre 2022)

Per chi vive ancora lasciandosi accompagnare dalla Chiesa nell’interpretare i segni dei tempi, la Liturgia della Parola dell’Avvento offre sempre di nuovo la possibilità di meditare – in un’ostinata ruminatio, consueta eppur capace di sorpresa!– quel capolavoro della letteratura biblica che attribuiamo al profeta Isaia. Si pensi a quanto scriveva san Girolamo: «Adempio al mio dovere, ubbidendo al comando di Cristo: “Scrutate le Scritture” (Gv 5, 39), e: “Cercate e troverete” (Mt 7, 7) […]. Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo. […] Intendo perciò esporre il profeta Isaia in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista e apostolo. […] Ma nessuno creda che io voglia esaurire in poche parole l’argomento di questo libro della Scrittura che contiene tutti i misteri del Signore.

Effettivamente nel libro di Isaia troviamo che il Signore viene predetto come l’Emmanuele nato dalla Vergine, come autore di miracoli e di segni grandiosi, come morto e sepolto, risorto dagli inferi e salvatore di tutte le genti» (Prologo al commento del Profeta Isaia, nn. 1-2; CCL 73,1-3). Per chi legge la Bibbia da discepolo di Gesù, alla cui luce si dischiude progressivamente il senso delle Scritture (cfr. Lc 24,27), molti passi di Isaia ci sorprendono per quanto precisamente delineano – al netto di ogni sospetto di retroproiezione confezionata ad arte – i tratti della vicenda evangelica. Tralasciando gli eloquenti passi sul Servo di JHWH, per rimanere nel clima dell’Avvento basterebbe appunto ricordare il segno della vergine che partorirà l’Emmanuele (Is 7,10-14), la profezia sul “Germoglio” che spunterà dal tronco di Iesse come vessillo per i popoli (Is 11,1-10) l’accorato invito a consolare il popolo disperso e ferito, preparando la via al Signore (Is 40,1-5), la descrizione del Messia «mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (Is 61,1-2), per finire col gioioso annuncio – indelebilmente legato al coro For unto us a Child is given, tratto dal Messiah di Georg Friedrich Händel – che prorompe dalla prima lettura della santa Messa nella notte della Natività: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. […] Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. […] Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine» (Is 9,1.5-6).  Il bisogno che oggi abbiamo di ascoltare queste parole, per intensità si avvicina solo alla bellezza dello stesso annuncio profetico. Non camminiamo forse ancora nelle tenebre della violenza e del vuoto che da ogni parte sembra assediare i nostri cuori e le nostre menti, sempre più assuefatte alle tattiche dittatoriali di strutture di peccato spesso anonime, ma all’apparenza così implacabilmente pervasive da imporre persino ai cristiani il prospetto spettrale di un destino ineluttabile?

Tempo della speranza per eccellenza, l’Avvento ci invita invece a lasciarci liberare dalla pesante oscurità che, spesso inconsapevolmente, ci opprime con gli abbagli delle finzioni quotidiane, per accogliere la Luce delicata e forte di Cristo che nasce per testimoniare che è possibile percorrere una strada alternativa – foss’anche a rischio della morte – perché in Lui abbiamo accesso alla vera vita, la vita eterna che già da ora pregustano coloro che credono. Spendersi per la pace, nella ricerca fiduciosa del verum, del bonum e del pulchum, ha quindi un senso, se Cristo ha vinto la morte e ci chiama efficacemente alla comunione eterna col Trinitas-Deus e i fratelli / le sorelle. La forza del messaggio evangelico, la forza della predicazione della Chiesa non può essere ridotta alla misura della nostra (spesso!) scarsa fede nel Dio cui tutto è possibile proprio nella forma dell’onnipotenza crocifissa, che troviamo già prefigurata nel legno della mangiatoia di Betlemme. Non so se quello che ho scritto pecca di “ecclesialese”; quel che so e voglio riportare è invece la testimonianza di qualcuno a cui il profeta Isaia è riuscito a parlare nonostante non si consideri un “credente”.

Modenese quasi suo malgrado, comunicato e cresimato nella parrocchia di Sant’Agnese, presto riconosciutosi “agnostico”, con tendenze vagamente panteiste, Francesco Guccini non è rimasto indifferente di fronte ad uno dei passi più enigmatici del profeta Isaia (Is 21,11-12), letti dal cantastorie nella traduzione – rigorosamente “laica” direbbero certi puristi – di Guido Ceronetti: «Guardia! Quando avrà fine la notte? / La Guardia dice – Sta venendo il mattino / Ma la notte durerà ancora / Tornate e ridomandate / Venite ancora insistete» (Il Libro del Profeta Isaia, Adelphi, Milano 1981). Da quel singolare incontro è sorta una delle canzoni più enigmatiche del Maestrone, la quarta dell’album Guccini uscito nel 1983, in cui viene ripresa la domanda rivolta alla sentinella di Isaia: Shomér ma mi-llailah?

Pur non condividendo la fede della Chiesa, che legge in questi versi soprattutto un invito alla conversione, Guccini restituisce un tratto comune dell’umano che non può comunque andar smarrito nella notte spirituale che stiamo faticosamente attraversando: «Cadranno i secoli, gli dei e le dee, cadranno torri, cadranno regni / e resteranno di uomini e di idee polvere e segni, / ma ora capisco il mio non capire, che una risposta non ci sarà, / che la risposta sull’avvenire è in una voce che chiederà». Isaia continua a parlare anche a chi non ha ancora incontrato il Salvatore; laddove non vi è (ancora?) la certezza della fede, vi sia almeno la perseveranza nella ricerca, ombra della speranza, sigillo di garanzia dell’umana resistenza al nulla: «perciò insistete, voi lo potete, ridomandate / tornate ancora se lo volete, non vi stancate…».

Una casa comune per portare pace (“Nostro Tempo” 13 novembre 2022)

Il 5 novembre scorso più di centomila persone sono scese in piazza a Roma per la manifestazione nazionale promossa da Europe for Peace. Un evento apartitico e tuttavia radicalmente politico, perché espressione di circa seicento libere associazioni che operano su diversi fronti per la consistenza e la qualità del tessuto sociale. Dopo aver letto la lettera Liberi insieme dalla guerra, scritta dal Presidente della CEI card. Matteo Zuppi a coloro che manifestano per la pace, gli organizzatori hanno dapprima condannato l’inaccettabile invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, per poi chiedere al Segretario delle Nazioni Unite, all’Unione Europea e all’Italia di operare per una soluzione politica del conflitto, che percorra effettivamente la via diplomatica. L’accorata richiesta è stata formulata citando esplicitamente l’appello di papa Francesco affinché «tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili» (Angelus, 2 ottobre 2022). Insieme alla testimonianza di Alexander Belik, Coordinatore del Movimento degli Obiettori di Coscienza Russi, il videomessaggio dell’attivista del Movimento Pacifista Ucraino Katryn (Katya) Cheshire ha espresso il senso stesso della manifestazione quando da vittima della guerra ha affermato: «La vita umana è il valore più grande. La vita di ogni ucraino è il valore più grande. La vita di ogni russo è il valore più grande. La vita di qualsiasi persona al mondo è il valore più grande. I conflitti sono ciò che abbiamo in testa, ciò che poi esce dalla testa. Tutto può essere risolto. Potete parlare, potete arrivare a delle conclusioni comuni».

Se la guerra procede da quel che abbiamo nella mente e nel cuore, allora il confronto col pensiero teologico può contribuire non poco all’edificazione della pace, almeno in ordine a quella “bonifica” delle categorie con cui interpretiamo la realtà che ognuno dovrebbe responsabilmente praticare. War and the American Difference (2011) di Stanley Hauerwas – riconosciuto dieci anni prima dal Time Magazine come America’s Best Theologian – ha l’indubbia capacità di condurci al nocciolo della questione sui temi della violenza e dell’identità nazionale attraverso quello che lui stesso definisce «un libro modesto con uno scopo immodesto». Con linguaggio schietto e sincera profondità teologica, Hauerwas intende infatti convincere i cristiani a riconoscere che la guerra è già stata abolita nella croce di Cristo e a chiedersi come si debba vivere in un mondo di guerra da popolo che condivide questa fede. La tesi paradossale del teologo altrettanto paradossalmente “texano e non-violento” sfida tanto il pessimismo del “nulla di nuovo sotto il sole”, quanto l’ingenuo irenismo delle “anime belle”. Confessando la violenza che purtroppo la abita e implorando umilmente la misericordia di Dio, la Chiesa costituisce un mondo alternativo e più reale rispetto a quello determinato strutturalmente dalla guerra, un mondo da cui può scaturire una politica alternativa ispirata in radice al realismo della pace. I cristiani non sono chiamati a liberare il mondo dalla guerra, ma a vivere in modo non-violento perché da discepoli di Gesù in un mondo di guerra occorre camminare insieme «nella speranza che il mondo possa e voglia rispondere positivamente ad una testimonianza di pace».

Se questo è il contesto della riflessione di Hauerwas, l’espressione «mondo di guerra» non dev’essere assolutamente fraintesa come se fosse un termine generico per indicare il mondo ferito dal peccato. Il teologo riformato intende parlare proprio della superpotenza che guida l’Occidente, gli Stati Uniti d’America ch’egli non esita a riconoscere come una «creatura della guerra», «una società e uno stato che non può vivere senza guerra», ossia senza quel «sistema sacrificale che è cruciale per il rinnovo degli impegni morali che costituiscono le nostre vite». Immune per ius soli dalla solita accusa di “antiamericanismo”, il teologo texano concentra invece l’attenzione su di una singolare struttura di peccato spesso trascurata dai “teologi nostrani”: poiché l’assetto liberal-democratico secolare, di cui gli Stati Uniti rappresentano il modello, si fonda sull’individualismo possessivo, esso necessita costantemente di un’efficace liturgia sacrificale che tenga insieme un “non-popolo” altrimenti destinato a disgregarsi in una faida d’interessi individuali. Sempre condotte dai “buoni” contro “i cattivi”, le guerre americane sono un’azione sacrificale collettiva attraverso cui s’afferma il “popolo messianico”, le cui ricadute morali e laicamente liturgiche sono accompagnate da una politica manipolatrice che – negando in modi diversi la morte, perché la si esalta o perché più banalmente sono altri a morire – costituisce «un affronto alla passione cristiana per la vita».

Poiché «la guerra è una sfida teologica all’autentica intelligibilità della pratica cristiana», la Chiesa era coerentemente presente a diverso titolo alla manifestazione di Roma, quasi nella consapevolezza – accuratamente passata sotto silenzio dal mainstream mediatico – ch’essa possa costituire una casa comune per ogni libera associazione che non la combatta direttamente. Occorre far quindi tesoro della fiducia manifestata non dalle élites, ma da molteplici corpi intermedi che riconoscono discretamente al Corpo di Cristo una sorta di leadership morale, ben riconoscibile in papa Francesco, nell’esigere che il drammatico braccio di ferro tra USA e Federazione russa – i cui gomiti premono in modo differentemente violento sull’Ucraina – cessi al più presto. «La Chiesa è l’alternativa alla guerra. Quando i cristiani non vedono più la realtà della Chiesa come un’alternativa alla realtà del mondo», spiega Hauerwas, «abbandoniamo il mondo alla guerra».

Esprimere la fede con il linguaggio (“Nostro Tempo” 09 ottobre 2022)

Nella lettera pastorale Le ragioni di Marta, l’Arcivescovo Abate di Modena-Nonantola e Vescovo di Carpi, monsignor Erio Castellucci – dopo aver presentato le iniziative proposte per il secondo anno del Cammino sinodale, incentrato sui cantieri di Betania comuni a tutta la Chiesa italiana – ha proposto un ulteriore ambito di collaborazione: il cantiere del linguaggio. Pur trattandosi di un’iniziativa locale, introdotta non senza una cert’ilarità riguardo ai limiti espressivi del cosiddetto «ecclesialese», mons. Castellucci intercetta quella che è una difficoltà comunicativa molto più ampia e diffusa che insiste «sul linguaggio liturgico, sulla predica e sulla catechesi». Se è vero, come osserva l’Arcivescovo, che «quando le nostre comunità cristiane, pur con i loro difetti, assomigliano alla “casa di Betania”, diventano attraenti, perché armonizzano l’ascolto della parola di Dio, l’ascolto degli altri e il servizio», continuare ad adottare un linguaggio incomprensibile ostacola decisamente questo processo di armonizzazione divino-umana e l’attrazione di grazia che ne deriva.

Se la comunità ecclesiale ha il dovere di comunicare in modo da farsi comprendere da coloro ai quali si rivolge all’interno come all’esterno di essa, risulta altrettanto doveroso far attenzione – nell’allestire il cantiere – a non cedere all’illusione che sia sufficiente “tradurre” il linguaggio cristiano-cattolico nel linguaggio socialmente diffuso o, peggio, tentar meramente di “rivestire” il primo coi panni apparentemente più efficaci del “così oggi si dice”. Sono secoli che la Chiesa sa che «quel che è ricevuto è ricevuto al modo del recipiente» («quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur»), con tutta l’attenzione che questa consapevolezza comporta per la continua accordatura del proprio annuncio sul modo in cui possa essere compreso dalle donne e dagli uomini a cui rivolge la Parola che, a sua volta, ha ricevuto in dono. Il linguaggio è infatti una sorta di organismo culturale “vivente” e, come tale, si trasforma continuamente col procedere della storia: costituisce la duplice condizione di possibilità tanto della tradizione grazie alla quale abbiamo ricevuto la stessa concreta possibilità di parlare (“lingua materna”), quanto dell’innovazione attraverso quell’elevata elasticità che permette non solo di dire “nuovamente” le stesse cose, ma anche di dire cose effettivamente “nuove”.

È questa sorprendete duttilità, fatta di persistenza e mutabilità, a far sì che il linguaggio ci renda capaci di comunicare non solo tra contemporanei, pur di lingue diverse, ma anche con coloro che hanno vissuto ieri o che vivranno domani, risuonando «di generazione in generazione». Questa vitalità fa sì che alcune espressioni con le quali abbiamo imparato a parlare decadano dall’uso e diventino quindi desuete, altre risultino addirittura così usurate da non significare più nulla, mentre compaiono continuamente nuovi modi di dire. La comunità ecclesiale non può non assumersi, sempre di nuovo, il compito di riflettere sul proprio modo di comunicare per verificare se – nel dar voce all’esperienza di fede che la rende tale – parla in modo significativo oppure se si limita a ripetere espressioni ricevute che, risultando estranee o mutate rispetto al linguaggio di chi le ascolta, finiscono per non dire più niente, se non perpetuare se stesse. È chiaro che, se si dovesse cedere a questa forza d’inerzia, l’annuncio cristiano si auto-confinerebbe prima in una sorta di ghetto linguistico, per poi scivolare nell’insignificanza.

Al di là di alcuni accenti non più attuali, la riflessione condotta da Edward Schillebeeckx, O.P., negli anni Settanta del Novecento può risultare ancora utile per comprendere che cosa implichi aprire un cantiere sul linguaggio impiegato dalla comunità ecclesiale. Mi riferisco, in particolare, al breve saggio Crisi del linguaggio di fede quale problema ermeneutico (in «Concilium» 5, 1973, pp. 48-65). Dopo aver mostrato come il linguaggio cristiano di fede, derivante dalla stessa rivelazione divina, ha una relazione costitutiva con il divenire storico-culturale, il teologo domenicano fa notare che il riconoscimento di una crisi linguistica può essere segno della vitalità di una comunità credente che cerca di «enunciare nuovamente, in un rapporto vivo (critico) col presente, ciò che fu manifestato in Gesù». Non si tratta, quindi, né di un’operazione di marketing religioso, né di adattarsi al linguaggio mondano dominante, ma di “sperimentare” – nel rispetto di ciò che si è ricevuto, col desiderio esprimerlo oggi per annunciarlo a coloro che incontriamo e incontreremo domani – un modo efficace di dire “Cristo” onorando il legame tra le parole della fede in Lui ed il contesto quotidiano in cui ne facciamo esperienza, proprio nel vivere come le altre donne e gli altri uomini del nostro tempo. Se vi è una fede viva, non senza tanta fatica e qualche fallimento, sarà sicuramente possibile trovare le parole adatte per esprimerla all’interno e al di fuori della comunità dei credenti.

È l’esperienza di Cristo nella Chiesa che sostiene quella tensione creativa necessaria per “lavorare” sul linguaggio ecclesiale, evitando di proiettare sull’annuncio le nostre espressioni più consuete, rivestendolo nell’illusione di renderlo più comprensibile, ma lasciandoci piuttosto “illuminare” dalla Parola accolta oggi affinché plasmi criticamente quelle stesse espressioni affinché divengano le parole “giuste” per un’omelia o una catechesi, ma anche per un semplice discorso tra amici… casomai davanti ad una buona birra! Come ha insegnato papa Francesco: «la grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» (Evangelii gaudium, 115). Anche solo per questo, la Chiesa è chiamata a tenere sempre aperto il “cantiere” sul linguaggio con cui esprime il Dono che ha ricevuto.

Cattolici alle urne. Quale identità? (“Nostro Tempo” 11 settembre 2022)

Ambrogio Lorenzetti “Allegoria del Buon Governo” (1338-1339 – Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena)

Tra due settimane gli italiani saranno chiamati a votare per rinnovare i componenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, in una congiuntura che da più parti viene descritta come la più ardua e complessa dalla fine del secondo conflitto mondiale. Nella dichiarazione rilasciata all’indomani delle dimissioni di Mario Draghi, il card. Matteo Zuppi ha auspicato che l’intensa crisi in atto – caratterizzata dall’aumento dell’inflazione e delle disuguaglianze, dall’elefantiasi del debito pubblico, dal ritorno del confronto tra blocchi, dall’emergenza climatica ed ambientale e dalla precarizzazione diffusa del lavoro – sia comunque interpretata come «una grande opportunità per ritrovare quello che unisce, per rafforzare il senso di una comunità di destino e la passione per rendere il nostro Paese e il mondo migliori».

Le indicazioni del Presidente della CEI sono sobrie e, almeno in linea di principio, condivisibili da (quasi) tutti. In sintesi: poiché la politica è «servizio del bene comune», occorre ispirarsi a «quello che Papa Francesco chiama amore politico» (cfr. Fratelli tutti), per onorare il dovere di «ricostruire il senso di comunità». Quest’invito alla riedificazione del “noi” procede anzitutto dall’attenzione per gli ultimi e per le prossime generazioni, nell’ottica di una “sostenibilità” umana, sociale ed ecologica che guardi al lungo periodo. Tutto giusto; ma chi dovrebbe realizzarla? A monte e a valle della vasta cassa di risonanza offerta dal Meeting di Rimini, il Corriere della Sera ha ospitato due riflessioni degne d’attenzione sull’irrilevanza della “cattolicità” per la campagna elettorale. Al di là dei teoremi giornalistici sull’ordine informale, ma inderogabile, che papa Francesco avrebbe fatto pervenire alla Chiesa italiana affinché questa rimanesse neutrale rispetto ai partiti, pur continuando ad esprimersi chiaramente sui valori (cfr. Claudio Tito su Repubblica del 21 agosto), la questione cattolica resta aperta e in attesa di venir adeguatamente decifrata.

Dopo aver ricordato il fondamentale ruolo della DC nella prima Repubblica, Andrea Riccardi (Corriere della Sera, 17 agosto) ha sottolineato come l’eclissi della questione cattolica sia iniziata già nel 1994 con la dissoluzione della “balena bianca”. Sostenuta in qualche modo dall’allora Presidente della CEI, card. Camillo Ruini, soprattutto attraverso le risorse del “progetto culturale” fino al 2007, la rilevanza politica dei “cattolici” è andata poi progressivamente sgretolandosi. Concentrati quasi esclusivamente sulle questioni ecclesiastiche, secondo Riccardi i vescovi si esprimono raramente sui temi centrali della politica, mentre va estendendosi la mancanza di un laicato atto a rilanciare il movimento politico cattolico. Si tratta allora di pensare seriamente a come dar voce e quindi rappresentanza politica alla «più grande rete sociale del paese» che, se considerata nelle sue differenti espressioni, rimane la Chiesa cattolica. Al pezzo del fondatore della Comunità di Sant’Egidio ha fatto eco Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 28 agosto), il quale ritiene che l’irrilevanza in oggetto è determinata alla radice dall’eccessiva fluidità dell’identità cattolica, che risulta così «priva di connotati precisi, indefinibile, e quindi incapace di porsi come una vera protagonista del dibattito». In campo politico ed anche teologico-religioso, il termine “cattolico” esprimerebbe oggi «molte cose molto diverse tra di loro». Incapace di rispondere adeguatamente alla secolarizzazione, l’identità cattolica si sarebbe frantumata in un pulviscolo di identità al punto che ogni fedele o gruppo di fedeli – al di là del comune riferimento alla “figura del sacerdote” – si costruirebbe un’identità ad libitum da giocare come meglio crede. Galli della Loggia elargisce quindi due indicazioni: rinunciare ad ogni ispirazione o tutela da parte della Santa Sede o della Chiesa italiana e accettare di essere solo una parte, di destra o di sinistra.

Ambrogio Lorenzetti “Effetti del Buon Governo in città” (1338-1340 – Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena)

Sinceramente non vedo come questi consigli, tanto utili quanto non richiesti, possano aiutare i “cattolici” ad essere politicamente rilevanti. Concordo però sull’analisi, più sociologica che teologica, riguardante la polverizzazione dell’identità cattolica. Più che considerarla un effetto della secolarizzazione, tendo a leggerla come una deriva del concomitante individualismo possessivo proprio delle società (neo-)liberali.

Prima di porsi il problema della rilevanza, occorre ricostruire l’unità di pensiero e di azione del mondo cattolico attraverso un dialogo franco e pubblico, esercitando quel «“relativismo” cristiano» che – secondo lo stesso cardinal Zuppi – consiste nel «relativizzare l’io a Dio e al noi. Solo così l’io ritrova se stesso» (Il Sussidiario, 21 agosto). Sarà allora l’esperienza della comunione ecclesiale a liberare i “cattolici” dal virus dell’individualismo, il quale ha portato non pochi a disperdersi rendendo forse irriflessivamente culto – come esige ogni giorno il “mercato” – alle proprie “preferenze”, a scapito di quell’unità nel rispetto delle differenze che è espressione propria di agápē/caritas. Guarendo dal riflesso condizionato della “sovranità del consumatore (anche religioso)” e ricostituendo la coscienza di far parte del tessuto interpersonale e sociale cattolico – non senza l’accompagnamento spirituale dei pastori – potrà sorgere un nuovo e plurale impegno politico. Libero dall’illusione del “partito cattolico”, ma cristianamente ispirato.

È pur sempre contemplando nel mistero «la città dalle salde fondamenta» (cfr. Eb 11,10), la «Gerusalemme che scende dal cielo» (cfr. Ap 21,10), che i “cattolici” – al di là della collocazione partitica e con buona pace di Galli della Loggia – sono chiamati a pensare e ad agire per edificare laicamente la polis terrena a vantaggio di tutti.

Gesù e il sorriso che svela la verità (“Nostro Tempo” 10 luglio 2022)

Prima di essere sbrigativamente ridotto alla pur costitutiva capacità di suscitare il riso, confondendolo così con la comicità, l’umorismo va piuttosto inteso come un’intelligente stile comunicativo particolarmente efficace. Né offensivo, né innocuo, l’umorismo costituisce una caratteristica saliente della comunicazione di Gesù. È questa la tesi fondamentale del volume dell’esegeta Klaus Berger (1940-2020), recentemente pubblicato da Queriniana, Un cammello per la cruna di un ago? L’umorismo di Gesù. Per oltre trent’anni docente di Teologia del Nuovo Testamento presso la Ruprecht-Karls-Universität di Heidelberg, Berger ha qui condensato le indagini condotte sui testi dei vangeli canonici e degli apocrifi che testimoniano questo tratto del Nazareno, spesso non adeguatamente riconosciuto. Come si può infatti evincere da alcuni delle più celebri pericopi evangeliche, l’umorismo che connota la comunicazione di Gesù opera una sorta di rovesciamento di ciò che comunemente s’impone come «serio, minaccioso e capace di incutere paura», affinché possa manifestarsi il sorprendente punto di vista di Dio sul reale e l’uomo venga così liberato dall’oppressione culturale, politica o religiosa. La comunicazione umoristica di Gesù favorisce pertanto negli uditori quel processo che nel Quarto Vangelo viene espresso con le parole: «conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). La differenza qui decisiva sta però nel modo in cui Gesù riesce a portare la verità a manifestazione, conducendo coloro che lo ascoltano ad esorcizzare i poteri “grandiosi” che li incatenano ai binari della consuetudine suscitando una risata quantomeno liberante.

«L’umorismo di Gesù esagera», scrive Berger, «perché si riconosca la verità (come nel caso delle perle, che non si devono gettare ai porci); distorce, perché s’impari a vedere bene (come nel caso del cammello e della cruna dell’ago); ingrandisce ciò che è piccolo, perché lo si possa vedere nella vera grandezza ch’esso in verità possiede davanti a Dio (come nel caso dell’obolo della vedova); lascia che lo si chiami mangione e beone, perché gli uomini facciano il confronto con la realtà». Per guarire gli occhi degli uomini e per aprirne la mente alla Rivelazione della sovrana libertà di Dio che si dona proprio a coloro che gli hanno chiuso il cuore, Gesù adotta spesso lo stile “sapienzial-umoristico” per il fatto che mira a rovesciare l’impianto concettuale consueto introducendo nel discorso «l’assurdità o la mancanza di coerenza (per l’uditore) tra la causa e l’effetto, tra azione e risultato, tra obiettivo ed esito, tra apparenza e realtà». Operare per favorire un accordo comunicativo, siglato per così dire da un sorriso d’intesa o da una sonora risata, al fine di costruire le condizioni di possibilità per lasciar che la verità di Dio si manifesti al di là degli schemi difensivi e riduttivi che ognuno porta più o meno consapevolmente con sé, comporta comunque un alto tasso di rischio. L’umorismo comporta infatti il pericolo di non esser presi sul serio, per cui Gesù mette paradossalmente a rischio la propria credibilità per rivelare l’affidabilità di Dio nella sua stessa persona.

Questo tratto, che ben esprime la logica dell’Incarnazione, permette di comprendere il motivo per cui Berger riconosce nella libertà di Gesù nei confronti dell’intero creato, derivante dal primo comandamento, il fondamento più profondo del suo umorismo. È solo per onorare la sovranità di Dio e favorirne la manifestazione, che Gesù adotta l’intelligente atteggiamento critico dell’umorista che costruisce una sorta di gioco di specchi verbale per lasciare che la realtà venga finalmente colta così com’è e si possa iniziare ad adottare l’etica radicale attestata dai vangeli. La comunicazione umoristica intende quindi educare non solo i discepoli, ma anche i semplici uditori ad «ammettere a motivo del Regno ciò che è a prima vista assurdo», proprio perché – aprendo ad una relazione inedita con Dio in Gesù – la prossimità del Regno comporta l’abbandono di non pochi comportamenti socialmente convenienti. Le provocazioni riportate dai vangeli sono pertanto intrise di umorismo, anche se per il lettore contemporaneo è difficile coglierlo a motivo dell’estraneità dovuta alla distanza storica e culturale che ci separa dal contesto della loro redazione. Un limite che tuttavia non impedisce a Berger di riconoscere in alcuni dei detti più significativi di Gesù il ricorso alla provocazione e alla creatività comunicativa propria dell’umorismo, il quale opera in modo sorprendente a favore della verità favorendo la conversione (metànoia).

W. Wheatley, Jesus Christ, Liberator (1973)

È Gesù stesso, ad esempio, che invita – con esempi esagerati, rovesciando le consuete gerarchie, esaltando il “piccolo” al punto da ridicolizzare ciò che è ritenuto “grande” – a riconoscere l’esistenza di «un agire favorevole e vivificante», reso possibile dalla grazia, che consente di trasgredire le «rappresentazioni morali usuali» per agire effettivamente in ordine al Bene. «Chi è davvero sveglio», glossa Berger, «dovrà scoprire piani diversi di pensiero e di azione». Se l’umorismo inerente alla predicazione di Gesù, orientato a favorire il liberante e gioioso riconoscimento della verità, è stato trascurato al limite del sopportabile, ciò è dovuto ad un certa seriosità ermeneutica (moderna, troppo moderna!), che tende ad interpretare fondamentalisticamente ogni espressione come se si ponesse sullo stesso piano. La maestria esegetica di Berger, al di là di qualche inevitabile debolezza argomentativa, può aiutare ogni discepolo di Gesù a riscoprirne l’efficacia apostolica proprio nel momento in cui – suscitando il riso proprio laddove il messaggio è più serio – smaschera gli stolti paludamenti retorici del moralismo e del devozionismo che rendono il Vangelo letteralmente “in-credibile”.