
«L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo». Quest’espressione tratta dal Prologo al Commento ad Isaia di san Girolamo, citata laddove la costituzione dogmatica Dei Verbum (1965) del concilio Vaticano II raccomanda la lettura della sacra Scrittura a tutti i fedeli, coglie da secoli il punto: per conoscere Gesù Cristo occorre passare dalla Scrittura. Non è possibile alcuna forma sostitutiva, né storica, né metafisica. La Scrittura svolge, da questo punto di vista, una mediazione insostituibile per incontrare Cristo. Il racconto dei discepoli di Emmaus sta lì ad attestarlo per i secoli a venire. L’ultima pubblicazione di PierAngelo Sequeri, Iscrizione e rivelazione. Il canone testuale della parola di Dio, curata da Francesca Peruzzotti per i tipi di Queriniana, sembra essere scritta per suscitare nei lettori la stessa domanda di quei due discepoli che si stavano lasciando Gerusalemme alle spalle: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32).

Al di là della complessità del periodare e dei riferimenti, il nucleo di quest’ultima raccolta del teologo milanese mira a suscitare un ripensamento della collaborazione tra esegesi e teologia a vantaggio dell’apprezzamento del corpus canonico delle Scritture. La comprensione fenomenologica dell’integrità del canone testuale della parola di Dio entra in contrasto con ogni selezione aprioristica e pregiudiziale del corpus biblico in parti più o meno significative, riducendo la Scrittura ad una sorta di antologia documentale più facilmente affidabile ad una lettura fondamentalistica. «La lettera è iscrizione della rivelazione passata a futura memoria: la sua interezza è il canone scritturale, che consente di custodire la rivelazione riconoscibile» (p. 32). Questa comprensione della mediazione scritturale, assolutamente irriducibile ad una sorta di “involucro” di una rivelazione altrimenti accessibile, fa tutt’uno con l’esperienza che si compie nella liturgia, laddove Cristo «è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura» (Sacrosanctum Concilium, n. 7). Le pagine di Sequeri, senza cedere sul piano teorico, tendono a mostrare come la recezione liturgica produca un coinvolgimento che, nell’oltrepassare ogni autoreferenzialità, esprime operativamente la funzione testimoniale della Scrittura «per me, come per l’altro».

Come scrive, con intensità, lo stesso teologo milanese: «L’edificio rituale della celebrazione, precisamente come ordinamento simbolico destinato a mettere in asse l’evento fondatore, istituisce la condizione permanente dell’atto di fede che ha nella lettura/ascolto delle Scritture sacre il suo archetipo. Al di fuori del legame con la ripetizione di questa struttura originaria dell’attestazione, la fede individuale non difetta semplicemente di un momento espressivo e/o comunitario. Piuttosto, perde semplicemente la possibilità di essere restituita alla effettività – storica e spirituale – del suo fondamento storico, trasformandosi fatalmente nell’infinita dilatazione della sua distanza da esso» (p. 56). Contrariamente all’individualismo che domina il contesto occidentale, l’esperienza della Scrittura è per Sequeri un’esperienza comunitaria nella quale la fede – qualora rimanesse ancorata alla sola dimensione individuale – rischierebbe di mancare l’incontro col Cristo che il canone scritturistico intende rendere possibile.

Dal decennale confronto del teologo milanese con le scienze umane, derivano poi una serie di preziose osservazioni sulla Scrittura come lingua materna. Le scienze umane ci hanno, ad esempio, insegnato che la lingua materna non è quella nella quale impariamo ad esprimerci normalmente, ma quell’insieme di dispositivi attraverso i quali si entra nel linguaggio universale umano (vocabolario, grammatica sintassi; vocalità e scrittura; ninne-nanne e canzoni preferite, narrazioni genealogiche sulla famiglia, la memoria delle biografie; storie di conflitti, perdite, eventi felici; le storie dei vicini e gli eventi della città; ecc.). Attraverso questo ricco insieme multiforme ogni bambino nella relazione con la madre sviluppa la propria capacità linguistica in senso ampio. Esegeti e teologi – operando nella Chiesa per onorare il primato della Parola di Dio – sono così chiamati a restituire previamente «alle sacre Scritture la loro funzione di “lingua materna”: nella quale si impara a parlare, anche se poi la competenza discorsiva sarà appropriata e sviluppata ben oltre i limiti di quella iniziazione» (p. 129). Non si tratta dell’ebraico, dell’aramaico o dell’ebraico in cui si esprime la parola di Dio che di per sé, non è né ebraica, né aramaica e neppure greca. Il fatto è, come nota giustamente Sequeri, che «la lettura individuale e privata, a diretto contatto coi testi, senza grembo affettivo e linguistico della tradizione e della comunità è anche irrimediabilmente esposta a uno stato confusivo e arbitrario» (p. 153).

Si tratta quindi di recuperare quel contesto interpersonale/comunitario e affettivo in cui viene a dischiudersi il senso stesso delle Scritture, consegnate alla Chiesa perché attraverso di esse si creda e credendo si abbia la vita in pienezza. La Bibbia è il libro del popolo di Dio, scritto per ispirazione dello Spirito Santo da uomini appartenenti al popolo di Dio per le donne e gli uomini che a loro volta vi appartengono e che sono chiamati a comprenderne i testi con lo Spirito con cui sono stati scritti. Penso infine che nel riconoscere la necessità per l’efficacia della lettura biblica del «rapporto con il grembo testimoniale e con l’orientamento affettivo della comunità di fede», Sequeri si riferisca all’indispensabile dimensione ecclesiale, animata dallo Spirito Santo. Come riattualizzare, altrimenti, l’esperienza dei discepoli di Emmaus?