
“Da altrove, la rivelazione” di Jean-Luc Marion

Il 5 novembre scorso più di centomila persone sono scese in piazza a Roma per la manifestazione nazionale promossa da Europe for Peace. Un evento apartitico e tuttavia radicalmente politico, perché espressione di circa seicento libere associazioni che operano su diversi fronti per la consistenza e la qualità del tessuto sociale. Dopo aver letto la lettera Liberi insieme dalla guerra, scritta dal Presidente della CEI card. Matteo Zuppi a coloro che manifestano per la pace, gli organizzatori hanno dapprima condannato l’inaccettabile invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, per poi chiedere al Segretario delle Nazioni Unite, all’Unione Europea e all’Italia di operare per una soluzione politica del conflitto, che percorra effettivamente la via diplomatica. L’accorata richiesta è stata formulata citando esplicitamente l’appello di papa Francesco affinché «tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili» (Angelus, 2 ottobre 2022). Insieme alla testimonianza di Alexander Belik, Coordinatore del Movimento degli Obiettori di Coscienza Russi, il videomessaggio dell’attivista del Movimento Pacifista Ucraino Katryn (Katya) Cheshire ha espresso il senso stesso della manifestazione quando da vittima della guerra ha affermato: «La vita umana è il valore più grande. La vita di ogni ucraino è il valore più grande. La vita di ogni russo è il valore più grande. La vita di qualsiasi persona al mondo è il valore più grande. I conflitti sono ciò che abbiamo in testa, ciò che poi esce dalla testa. Tutto può essere risolto. Potete parlare, potete arrivare a delle conclusioni comuni».
Se la guerra procede da quel che abbiamo nella mente e nel cuore, allora il confronto col pensiero teologico può contribuire non poco all’edificazione della pace, almeno in ordine a quella “bonifica” delle categorie con cui interpretiamo la realtà che ognuno dovrebbe responsabilmente praticare. War and the American Difference (2011) di Stanley Hauerwas – riconosciuto dieci anni prima dal Time Magazine come America’s Best Theologian – ha l’indubbia capacità di condurci al nocciolo della questione sui temi della violenza e dell’identità nazionale attraverso quello che lui stesso definisce «un libro modesto con uno scopo immodesto». Con linguaggio schietto e sincera profondità teologica, Hauerwas intende infatti convincere i cristiani a riconoscere che la guerra è già stata abolita nella croce di Cristo e a chiedersi come si debba vivere in un mondo di guerra da popolo che condivide questa fede. La tesi paradossale del teologo altrettanto paradossalmente “texano e non-violento” sfida tanto il pessimismo del “nulla di nuovo sotto il sole”, quanto l’ingenuo irenismo delle “anime belle”. Confessando la violenza che purtroppo la abita e implorando umilmente la misericordia di Dio, la Chiesa costituisce un mondo alternativo e più reale rispetto a quello determinato strutturalmente dalla guerra, un mondo da cui può scaturire una politica alternativa ispirata in radice al realismo della pace. I cristiani non sono chiamati a liberare il mondo dalla guerra, ma a vivere in modo non-violento perché da discepoli di Gesù in un mondo di guerra occorre camminare insieme «nella speranza che il mondo possa e voglia rispondere positivamente ad una testimonianza di pace».
Se questo è il contesto della riflessione di Hauerwas, l’espressione «mondo di guerra» non dev’essere assolutamente fraintesa come se fosse un termine generico per indicare il mondo ferito dal peccato. Il teologo riformato intende parlare proprio della superpotenza che guida l’Occidente, gli Stati Uniti d’America ch’egli non esita a riconoscere come una «creatura della guerra», «una società e uno stato che non può vivere senza guerra», ossia senza quel «sistema sacrificale che è cruciale per il rinnovo degli impegni morali che costituiscono le nostre vite». Immune per ius soli dalla solita accusa di “antiamericanismo”, il teologo texano concentra invece l’attenzione su di una singolare struttura di peccato spesso trascurata dai “teologi nostrani”: poiché l’assetto liberal-democratico secolare, di cui gli Stati Uniti rappresentano il modello, si fonda sull’individualismo possessivo, esso necessita costantemente di un’efficace liturgia sacrificale che tenga insieme un “non-popolo” altrimenti destinato a disgregarsi in una faida d’interessi individuali. Sempre condotte dai “buoni” contro “i cattivi”, le guerre americane sono un’azione sacrificale collettiva attraverso cui s’afferma il “popolo messianico”, le cui ricadute morali e laicamente liturgiche sono accompagnate da una politica manipolatrice che – negando in modi diversi la morte, perché la si esalta o perché più banalmente sono altri a morire – costituisce «un affronto alla passione cristiana per la vita».
Poiché «la guerra è una sfida teologica all’autentica intelligibilità della pratica cristiana», la Chiesa era coerentemente presente a diverso titolo alla manifestazione di Roma, quasi nella consapevolezza – accuratamente passata sotto silenzio dal mainstream mediatico – ch’essa possa costituire una casa comune per ogni libera associazione che non la combatta direttamente. Occorre far quindi tesoro della fiducia manifestata non dalle élites, ma da molteplici corpi intermedi che riconoscono discretamente al Corpo di Cristo una sorta di leadership morale, ben riconoscibile in papa Francesco, nell’esigere che il drammatico braccio di ferro tra USA e Federazione russa – i cui gomiti premono in modo differentemente violento sull’Ucraina – cessi al più presto. «La Chiesa è l’alternativa alla guerra. Quando i cristiani non vedono più la realtà della Chiesa come un’alternativa alla realtà del mondo», spiega Hauerwas, «abbandoniamo il mondo alla guerra».