La Tradizione non è divisiva (“Nostro Tempo” 12 settembre 2021)

Lo scorso 16 luglio papa Francesco ha promulgato una Lettera apostolica in forma di Motu proprio, in cui impegna la propria autorità per dirimere una situazione che ha finito per appesantire non poco la vita ecclesiale, giungendo in alcuni casi a minacciarne l’unità. Il documento Traditionis custodes intende infatti rivedere integralmente la modalità con cui – in particolare a partire dal Motu proprio Summorum pontificum promulgato da Benedetto XVI nel 2007 – è stata concessa la possibilità di celebrare il Rito romano secondo l’impianto precedente alla riforma liturgica del 1970, scaturita dal Concilio ecumenico Vaticano II.

Dopo l’indulto concesso da san Giovanni Paolo II in vista della ricomposizione dello scisma provocato dall’ostinazione di mons. Lefebvre, Benedetto XVI ha ritenuto di dover ampliare la possibilità di usare il Messale promulgato da san Pio V secondo l’edizione di san Giovanni XXIII del 1962 – giornalisticamente ed impropriamente chiamato “Messa in latino” o “Messa tradizionale” –  per favorire i fedeli che continuavano a trovarvi una forma appropriata per incontrare il Signore nel mistero dell’Eucaristia. Al fine di consentirne un uso che oltrepassasse i limiti previsti dall’indulto, facendo leva sul fatto che il Messale promulgato da san Pio V non era mai stato abrogato, Summorum pontificum optava per una dualità all’interno della lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino: se il Messale promulgato da san Paolo VI ne rappresentava l’espressione ordinaria, quello promulgato da san Pio V ne costituiva però l’espressione straordinaria. Senza ledere il primato della forma generata a valle del Concilio Vaticano II, Benedetto XVI riteneva che le due forme debitamente ordinate avrebbero potuto coesistere arricchendosi a vicenda. Al di là delle intenzioni dell’autore, quest’ampliamento dell’uso dell’edizione del 1962 del Messale romano ha purtroppo portato a ben altri esiti rispetto a quelli auspicati. Dopo aver consultato i vescovi, papa Francesco ha dovuto riconoscere che la possibilità offerta per «ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendosi al rischio di divisioni».

Troppo spesso, infatti, alla radice di un eccessivo attaccamento al Messale del 1962, motivato da una pretesa sensibilità estetico-spirituale, è stata riscontrata quella che non esiterei a definire una vera e propria patologia della vita ecclesiale. Per l’attuale Pontefice questa farebbe tutt’uno con «un uso strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”». È  qui che, a mio parere, va individuato il motivo fondante di Traditionis custodes che lo rende un documento tale da non poter non interessare – oltre i vescovi, ai quali è principalmente rivolto – l’intero popolo di Dio. Si tratta, infatti, di difenderne l’unità dalle pur minoritarie spinte che finirebbero per lacerare ulteriormente il Corpo di Cristo attraverso un’anacronistica fissazione su di un solo segmento della bimillenaria vita della Chiesa, quello che va più o meno dal 1570 al 1962. È quindi per tutelare l’unità della vita della Chiesa nell’integrità del suo dinamismo che papa Francesco ha ritenuto di dover prendere «la ferma decisione di abrogare tutte le norme, le istruzioni, le concessioni e le consuetudini precedenti al presente Motu proprio, e di ritenere i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, come l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano».

Una decisione severa, certo, ma che non va interpretata come una damnatio memoriae del Messale promulgato da san Pio V, ma piuttosto come una decisione presa per tutelare il senso della vita della Chiesa nella storia, ossia della Tradizione «che trae origine dagli Apostoli e che progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo» (Dei Verbum, 8). Sono infatti i cosiddetti “tradizionalisti” a contraddire, in realtà, il senso teologico della Tradizione, nel momento in cui optano per “una” fase passata della vita della Chiesa identificandola equivocamente con “la” forma tradizionale. Così facendo, essi finiscono per sostituire al senso teologico un approssimativo valore sociologico, per cui il termine “tradizione” finirebbe semplicisticamente per significare “quel che si faceva una volta”, confondendo una fase del passato con un sedicente “si è sempre fatto così”. «La tradizione» ha scritto Yves Congar O.P. criticando mons. Lefebvre, «non è il passato, vecchie abitudini conservate per spirito di corpo. È attualità, allo stesso tempo trasmissione, recezione e creatività. È la presenza d’un inizio a tutti i momenti del suo sviluppo». Lo stesso Benedetto XVI ha insegnato che «la Tradizione non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti».

Pensare la Tradizione diversamente dall’atto della trasmissione della fede, che fa tutt’uno con la vita stessa della Chiesa, non può che portare ad un’irragionevole reificazione che susciterebbe molti più problemi di quanti non sarebbe in grado di risolverne.

Pubblicità